29 dicembre 2009

Ci vuole coraggio in Italia...



“[…]L’Italia è così. Dimenticate l’Italia di Dante. Dimenticate l’Italia di Verdi. Dimenticate l’Italia delle vostre fantasie. Benvenuti nell’Italia che definisce una retata contro gli immigrati ‘Operazione Bianco Natale’, nell’Italia che dichiara che il Presidente degli Stati Uniti ha una bella tintarella, la stessa Italia che poi si mette anche a ridacchiare di queste cose.»”
Martin Ketlle conclude il suo articolo con questa frase (l’articolo completo potete trovarlo qui:
Leggere l’amarezza di questo giornalista mi ha fatto pensare alla mia di amarezza, quella di una diciannovenne che sogna di vivere la sua vita scrivendo storie da leggere per pensare, che sogna di diventare una brava giornalista, una che scopre verità nascoste e le mostra al mondo, senza aver paura di ricevere minacce o di essere imbavagliata da un compromesso.
Mi fa male pensare che dall’estero ci guardano con sguardo sprezzante, di disgusto, per una colpa che io non ho, che molti altri non hanno.
I cosiddetti adulti si lamentano continuamente dei cosiddetti giovani, sempre sbandati, sempre a cercare i soldi da mamma e papà, sempre a pretendere senza poi dare, senza ideali, senza valori, che hanno dimenticato cos’è il rispetto.
L’imbecillità di questi discorsi mi lascia a bocca non aperta, spalancata. A voi che state leggendo chiedo di farvi una piccola, semplice domanda. CHI ha educato questi giovani, CHI li ha cresciuti, CHI ha dato loro questa imitazione di futuro?
Io sono arrabbiata con chi mi ha lasciato un mondo del genere, io sono furiosa verso chi ha fatto sì che i miei coetanei sappiano dire solo “chi se ne frega, tanto a me che mi fanno?”, io sono stufa di sentirmi così impotente. Impotenza. Termine che non designa solo una deficienza sessuale. L’impotenza è quella sensazione che si prova quando i propri sforzi vengono considerati nulli a causa dell’indifferenza, l’impotenza riesce a rosicchiare uno spirito combattivo, addirittura la rabbia.
Mi sono sentita impotente quando ho letto questo articolo, mi sono sentita così anche quando ho visto il film-documentario “Videocracy”, mi sento così ogni volta che qualche parlamentare apre bocca, ogni volta che vedo ragazzi della mia età essere totalmente indifferenti.
Martin Kettle, non ho avuto la fortuna di nascere negli anni in cui in Italia c’erano intellettuali del calibro di Pirandello, Fermi o Pascoli, ma non per questo merito di essere dimenticata a causa dell’ignoranza di chi mi ha lasciato in eredità uno sfacelo da disfare e comporre daccapo.
La domanda che mi (e vi) pongo è questa: Chi sarà in grado di scucire e ricucire un’ Italia così lacera? Ci sarà qualcuno in grado di avere una forza di volontà tale?
Oppure sarò obbligata a vedermi scorrere tutto davanti agli occhi, come hanno fatto gli inetti delle generazioni precedenti alla mia?
Guardate che ci vuole coraggio per tenere gli occhi così chiusi.

03 dicembre 2009

"L'esclusa", Luigi Pirandello


 
In un piccolo paese della Sicilia di fine Ottocento, due famiglie, unite dal matrimonio fra Rocco Pentagora e Marta Ajala, vengono divise proprio dalla fine di questo, a causa di uno scambio epistolare fra la donna ed un notabile, Gregorio Alvignani.
Mentre i Pentagora muovono l’opinione del paese contro Marta, giudicata fedifraga, quest’ultima, che non ha alcun problema con la propria coscienza, è bandita dal padre, che a sua volta nasconde se stesso dal resto della famiglia, chiudendosi al buio della propria stanza da letto.
Così la famiglia Ajala è costretta a provveder da sola agli affari della conceria, che viene affidata ad un cugino, Paolo Sistri, che di lì a poco la manderà in rovina.
La morte di Francesco Ajala, quella del figlio che Marta aspettava da Rocco e il fallimento della conceria, segnano l’inizio di una veloce decadenza per le Ajala. Ma in loro aiuto sopraggiunge Anna Veronica, una vecchia amica di Agata Ajala, anche lei emarginata per uno scandalo che l’aveva coinvolta anni prima.
Marta intanto decide di fare un esame che la abiliti ad insegnare, per aiutare madre e sorella minore a rialzarsi dal fango. L’esame lo passa, ma non il muro d’ostilità ed ignoranza che le si para davanti, così viene sostituita dalla figlia di un consigliere. Finalmente riesce a conquistare una cattedra, ma il rancore ingiustificato di alunne e genitori la farà presto scappare a Palermo, con tutta la famiglia.
Ed è nella cittadina sicula che le Ajala iniziano a vivere giorni più lieti.
A poco a poco che l’abitudine alla tranquillità scalda il cuore a madre e sorella, Marta, da quell’abitudine, comincia a sentirsi svuotata, a sentire l’oppressione dell’esclusione, di nuovo. A scuola i colleghi le fanno la corte, ma lei non ne è affatto lusingata, anzi, infastidita.
Qui rincontra l’Alvignani, con cui ha una breve relazione, la quale finisce dal momento che la donna si rende conto di non averlo mai amato.
È durante l’agonia della madre di Rocco, trasferitasi a Palermo dopo esser stata cacciata dal marito per tradimento, che Marta e Rocco si ricongiungono.
Pirandello sembra dipingere il grande quadro de “L’esclusa” con passione, precisione e grande capacità espressiva. E lo scenario è vasto, ma non perché mille e uno personaggi entrano nella storia e si rincorrono uno ad uno riempiendola di fatti, di nomi. Lo scenario è vasto perché ogni personaggio viene caratterizzato in ogni minimo particolare, dando al lettore la sensazione che stia lì, davanti ad i suoi occhi, a parlare, a pensare, a piangere o anche a morire. Anche i nomi, anche i suoni delle parole con cui Pirandello descrive queste sue “creature d’inchiostro” contribuiscono a donare una precisa istantanea di essi. Un esempio di ciò si può avere con il professore Matteo Falcone, dai modi così rozzi, dai piedi così storti, dall’aspetto così spaventoso, il quale si innamora perdutamente di Marta e che per questo amore non corrisposto finisce in manicomio. L’uomo viene descritto con termini dai suoni gutturali e dentali, creando un’immagine quasi grottesca che drammatizza e in parte sdrammatizza il personaggio.
Un altro esempio di caratterizzazione al limite del teatrale si ha col consigliere, padre di un’alunna strafottente, che si lamenta dell’operato di Marta andando a parlarne col direttore della scuola, trasformandosi così nella goccia che fa traboccare il vaso e che fa trasferire Marta e la famiglia a Palermo. Nel descrivere l’irruenza decisiva dell’uomo, Pirandello adotta nel testo il suo modo di parlare, arrivando ad onomatopeiche per descrivere ad esempio lo strisciare snervato delle sue scarpe, quasi come se volesse far vibrare anche la carta della rabbia del padre offeso.
I personaggi in realtà sono pochi e tutti, nel loro piccolo, fondamentali, quasi come se si stesse leggendo un’opera di Shakespeare (ad esempio Romeo e Giulietta), in cui ogni singola voce è funzionale allo svolgimento dei fatti narrati.
Inoltre è interessante notare come sia evidente il paradosso presente nel romanzo.
Marta viene cacciata di casa ed accusata di infedeltà dal marito, perché protagonista di uno scambio di lettere con l’ Alvignani. Basta questo a scatenare la bufera.
In realtà Marta non fa altro che sentirsi lusingata dalla conversazione epistolare con l’uomo, il quale la riempie di ammirazione, riconosce la sua cultura e la valorizza. La donna anzi si sente stupida a non aver frenato quello scambio di opinioni, di idee, di complimenti. E si sente così dal momento che non prova, nei confronti del notabile, alcuna sorta di sentimento che possa comprometterla nel matrimonio con Rocco. Ma l’ignoranza e l’impulsività di Rocco, alimentate da una sorta di superstizione nei confronti del matrimonio tutta teorizzata dal padre di lui, Antonio Pentagora, il quale afferma che ogni Pentagora “cornuto nasce”, portano l’uomo apparentemente tradito, a non tentare di oltrepassare l’apparente evidenza della situazione.
Così iniziano tutte le peripezie di Marta, la quale fa di tutto per risollevarsi dal fango, per camminare a testa alta in mezzo alla strada. La madre e la sorella non capiscono questo atteggiamento, quasi come se non lo approvassero perché già arresesi alla condanna collettiva.
L’esclusa quindi, non solo deve fare i conti con un intero paese in cui “se tutti la pensano così, allora qualcosa di fondato ci deve pur essere”, ma deve anche lottare per discolparsi davanti a madre e sorella. Perché se all’inizio decide di non fare assolutamente nulla, nella convinzione di avere la coscienza pulita, Marta capisce anche che la sua “non-colpa” è stata fautrice di danni alla sua famiglia. E mentre la donna si allontana dagli entusiasmi della famiglia, quest’ultima appare come coperta da un manto caldo che la riscalda. Ed è Marta stessa a procurarlo quel manto. Solo che il suo lato è gelido, ma a lei non importa ciò.
Quando a Palermo rincontra Gregorio Alvignani, nasce la passione, lei crede addirittura di amarlo. È a questo punto che tutto però si ribalta. La relazione con il notabile termina perché Rocco rivuole indietro la moglie, che intanto è incinta dell’Alvignani. La madre di Rocco è in fin di vita e Marta, nonostante il tradimento, ora avvenuto, si ricongiunge al marito. Ed è proprio l’Alvignani che fa notare alla donna da lui amata il paradosso: “[…] Pensaci! Innocente, ti hanno punita, scacciata, infamata; e ora tu, spinta da tutti, perseguitata, non per tua passione, non per tua volontà, hai commesso il fallo […] il fallo di cui t’accusarono innocente, ora ti riprendono, ora ti rivogliono! Vacci! Li avrai puniti tutti quanti, come si meritavano!”.
In qualche modo tutto ciò vanifica i tentativi fatti da Marta di rialzarsi da sola, con le proprie forze, di dimostrare che lei era nel giusto.
Solo ora che si è resa finalmente colpevole della colpa che, al tempo, non aveva commesso, il marito chiede la riconciliazione, e la ottiene durante la veglia della madre.
Il fatto che la riconciliazione avvenga davanti al letto di morte della madre di Rocco è un particolare che potrebbe rappresentare il punto d’arrivo della vicenda. Anche la madre dell’uomo, come Marta, era stata cacciata di casa perché accusata di adulterio. Anche lei quindi ha passato una vita da esclusa.
È come se madre e nuora ottenessero la loro vendetta l’una grazie all’altra. La nuora si riconcilia col marito solo dopo essersi compromessa davvero, e l’occasione arriva con l’agonia e la morte della madre di Rocco. Quest’ultima invece muore avendo davanti agli occhi la sconfitta morale dell’ex marito, Antonio Pentagora.
Ma si parla di vendetta, non di vittoria. Gli sforzi di Marta sono vanificati dal “fallo” che infine commette. La madre di Rocco invece muore dopo aver condotto una vita da emarginata, senza aver mai provato ad alzare il capo.
È come se in questa storia tutti fossero vittime e allo stesso tempo vendicatori.

28 novembre 2009

1° Marzo, sciopero dei lavoratori immigrati anche in Italia!



 
Sulla metropolitana, oltre ad osservare la frenesia dei propri concittadini, è interessante anche leggere il classico giornale gratis per ammazzare il tempo fra una stazione e l'altra.
E mentre questo tempo lo si abbatte a suon di parole, ci sono notizie che fanno nascere considerazioni.
Come quella che riguarda gli immigrati in Francia, che lì vivono e lavorano e che hanno indetto per il 1° Marzo uno sciopero.
Proprio così, per un’intera giornata gli immigrati, i “nuovi francesi”, né lavoreranno né faranno acquisti. Loro vogliono difendere la loro dignità dagli attacchi razzisti del governo (si vede che Italia e Francia sono “cugine”, eh?), vogliono educare un sistema che troppo spesso approfitta della loro disperazione, della loro umiltà.
E qui in Italia quanti “nuovi italiani” vorrebbero riacquistare la loro dignità?
Ed ecco che allora ho pensato che sarebbe bello se gli stranieri che lavorano facessero la stessa cosa, mandassero in tilt un sistema che, con l’arroganza di un bambino viziato,  usa queste persone e le sminuisce.
Su Facebook è già nato un gruppo volto a diffondere l’iniziativa anche nel Bel Paese. Il nome del gruppo è “Primo Marzo 2010 primo sciopero italiano degli stranieri”. I fondatori sperano che l’iniziativa superi i confini del web e arrivi nelle piazze, diventi realtà.
Così, mentre la Lega Nord si sgola per far sì che agli immigrati siano consentiti solo 6 mesi di cassa integrazione (dato che il lavoro di un italiano vale più di quello di un albanese, giusto?), qualcosa si sta muovendo, perché la dignità di 4 milioni di lavoratori stranieri vale più di un sistema che rischia la paralisi.

Se l’iniziativa vi interessa, ecco il link per iscriversi al gruppo:http://www.facebook.com/group.php?gid=208029527639&ref=search&sid=1195807305.1971973350..1&v=info#/group.php?v=wall&ref=search&gid=208029527639

24 novembre 2009

Piano, solo





 
A volte capita di guardare un film.
A volte capita di guardare un film e di pensare che tutto sommato sia un buon film.
A volte capita poi di entrare in un negozio di musica, ricordarsi di quel film (perché forse parlava proprio di musica), e di cercare magari nella sezione dedicata al jazz se ci sia l’artista di cui si parla nella pellicola in questione.
In effetti il lungometraggio è “Piano, Solo” e racconta la storia di Luca Flores (interpretato dall’ottimo Kim Rossi Stuart), un uomo dal talento geniale col suo pianoforte, a cui la musica jazz ha regalato davvero molto.
Luca nasce nel 1956 e muore nel 1995.
Tutto gira intorno alle sue note, alle sue scale, al suo sguardo.
È proprio dai suoi occhi che si comprende quanto l’uomo sia turbato dentro, quanto stia male, a causa dei ricordi di una madre morta in Africa durante un incidente stradale che stava per togliere la vita sia a lui che alla sua adorata sorella Barbara, detta anche Baba (interpretata da una Paola Cortellesi insolitamente drammatica, e appunto coinvolgente in questo suo insolito ruolo).
La sua vita ruota anche attorno al senso di colpa per la morte di sua madre, un senso di colpa scandito dal suono-ritmo del copertone della ruota dell’auto “maledetta”, un ritmo, quasi tribale, che si ripete costantemente nella sua memoria, un suono che è nella sua testa fin da quel momento e lo accompagnerà fino alla sua morte.
Eppure prima che la malattia mentale insorga, ci sono sprazzi di luce nella sua vita.
Molto giovane consegue il diploma in Pianoforte a Firenze, col massimo dei voti.
Conosce due ragazzi con cui formerà un terzetto jazz. Durante le esibizioni in un piccolo locale con i due amici conosce Cinzia, con la quale nasce subito una tenera passione che si trasformerà nell’amore della sua vita, nonché anche la “goccia” che farà traboccare il vaso, quando questo terminerà.
Luca viene notato da alcuni artisti Jazz con cui parte in svariate tournée. È proprio grazie a questi concerti in giro per il mondo che il suo talento comincia ad essere molto apprezzato ed è per questo che Chet Baker, leggenda del jazz, lo vuole con sè nelle sue tournée mondiali.
È a questo punto però che la situazione comincia a declinare.
Il rapporto con Cinzia (interpretata da Jasmine Trinca) a poco a poco si deteriora. Lei desidera la normalità ma lui non riesce a dargliela, un po’ per gli impegni musicali, un po’ perché la sua natura non glielo permette.
Così abortisce del bambino che aspettava da Luca.
Non appena l’uomo scopre questo, cade nel baratro. A poco a poco, lentamente scivola nel buio dell’autodistruzione.
I tentativi di suicidio, il viaggio in Africa per cercare, tentare di ritrovare se stesso, l’elettroshock nelle cliniche psichiatriche per cercare di curarsi.
Arriva addirittura a voler rinunciare a ciò che lo rende vivo nel profondo.
La musica.
Infatti si ferisce ad una mano, un gesto inspiegabile, ma che in realtà nasconde il suo malessere, la sua “follia”, il suo senso di colpa. Viene curato e riprende a suonare. Non davanti al pubblico però.
Tutta la famiglia è attenta ad ogni passo del musicista, il padre (interpretato da un bravissimo Michele Placido) tenta di provare a stargli accanto, tenta di “fare” il padre ma neanche questo servirà a scacciare il buio dagli occhi di Luca.
Prima di uccidersi scrive una musica per pianoforte dal titolo “How far can you fly”.
Quanto lontano tu puoi volare.
Eppure lui non ha scelto di volare. Ha scelto la via più breve per eliminare i suoi problemi. Ha scelto di immergersi totalmente in quel buio.
Questa storia emoziona, trascina, è piena di silenzi, di sguardi, di parole non dette o non ascoltate.
Questa storia è piena di musica, di rumori, di suoni, è piena di sentimenti, di paura, di genialità, di follia, di colori, di paesaggi, di sapori.
Luca Flores ammirava qualunque musicista che suonasse ogni nota come fosse l’ultima.
Aveva imparato a fare anche lui lo stesso.









Regia: Riccardo Milani
Con:
Kim Rossi Stuart, Jasmine Trinca, Paola Cortellesi, Michele Placido.

18 novembre 2009

La solita vittoria dell'ECOnomia sull'ECOlogia: Copenhagen e le belle (ma inutili) parole. Attendendo le risposte della Natura


Nel corso della storia umana si sono spesso compiute azioni, soprattutto di carattere collettivo, le quali hanno avuto conseguenze vistose per generazioni successive”. Lo dice Pontara nel 1995, quando nel frattempo si lavora ad un protocollo, quello di Kyoto, che verrà approvato nel 1997. Il famoso “protocollo di Kyoto” prevede la riduzione dei gas serra, in rapporto ai dati del 1990, del 5% per il periodo 2008-2012.
Naturalmente anche i migliori propositi hanno la solita scappatoia che tanto piace a quei furbacchioni che siedono su comode poltrone e giocano con le nostre vite e con i nostri desideri, maneggiandoci come pezzi di legno, dandoci l’appellativo di “numeri”, “utenti”, “consumatori”, “giovani” o “pensionati”, “studenti”, “operai” e “spettatori”.
L’oggetto in questione sarebbe una piccola nota, la quale afferma che, per entrare in vigore, il documento deve essere approvato da almeno cinquantacinque paesi.
Dal 1997 al 2004 è passato un po’ troppo tempo però. Proprio nel 2004, infatti, il protocollo viene effettivamente reso efficace con l’adesione della Russia di Putin. Alla fine del 2007 è la volta dell’Australia. Un grande buco al centro, che riempie l’atmosfera di una quantità di gas serra pari al 33,6 % della percentuale complessiva. Questo baratro si chiama Stati Uniti d’America. Il paese dei balocchi, il paese patria di Felicità e Libertà - le quali passeggiano a braccetto fra palazzi bianchi, lussuosi grattacieli a Manhattan e calde spiagge della California, evitando accuratamente ghetti per neri, scuole pubbliche e quella percentuale di persone che non può mettere piede negli ospedali perché sprovvista di assicurazione - questo paese non ha intenzione di aderire alle norme di Kyoto a causa del rischio di rovinare la propria economia a vantaggio dei paesi in via di sviluppo. E la Cina che dice? Altro buco nero, disinteresse completo.
Verrebbe da chiedersi come sia stato possibile, in soli quattro anni, riuscire a ridurre del 5% l’emissione di gas serra.
Ed in effetti questa domanda è lecito porsela. E’ lecito perché a respirare quell’aria malsana che vaga per le vie delle nostre città siamo noi, sono i nostri figli e lo saranno i nostri nipoti.
Quante volte, aspettando che l’altro vi raggiunga, accendete il motore della vostra auto e lo lasciate tossire per minuti e minuti che a voi sembrano nulla, ma per l’ambiente sono attimi di vita spezzata, un albero che non sospira più, un terreno che non sente più le carezze del cielo, un monumento storico scavato per sempre da mere combinazioni chimiche, combinazioni che si trasformano in soldi, soldi che fanno girare un’economia, economia che alla maggior parte dà briciole.
Quante volte ignoriamo l’importanza di una buona educazione al risparmio energetico, al riciclo dei materiali. E quante volte il muro dell’omertà mafiosa ha distrutto posti meravigliosi e contribuito così a creare altro degrado, altri disagi ambientali?
Il mondo aveva a Dicembre un’altra possibilità, forse l’ultima, per cambiare lo stato delle cose. Naturalmente non la utilizzerà. Si tratta del summit per i cambiamenti climatici che si terrà a Copenhagen tra il 7 e il 18 Dicembre 2009.
Il problema è fondamentalmente lo stesso che riguarda il fallimento del protocollo di Kyoto. USA e Cina.
Barack Obama è occupato con la politica interna (riforma della sanità e riforma energetica) e disturbare il Congresso con argomenti riguardanti l’equilibro ECOlogico del pianeta sarebbe troppo per l’equilibrio ECOnomico. Ma sì, che i ghiacciai si sciolgano e i deserti si estendano, se abbiamo quei bei pezzi di carta che ci danno tanto potere, possiamo anche andare sulla Luna, avete visto che l’acqua c’è?
Inoltre, disturbare la cara Cina, la quale non ne vuole sapere di norme per rispettare l’ambiente, non è conveniente, altrimenti fra i due giganti, vince quello rosso e con gli occhi a mandorla. E chi lo vuole un altro muro di Berlino?
Dunque, da Bangkok, dove si sta svolgendo la prosecuzione dei negoziati per la stesura dell’accordo sui cambiamenti climatici da approvare al summit, non uscirà nulla di legalmente vincolante per i 192 paesi che vi parteciperanno, ma solo una bella dichiarazione politica, un foglio di carta, un'altra foresta abbattuta.
E allora sapete che vi dico?
Io spero che la Natura a poco a poco si rivolti contro i responsabili di questa violenza di massa, io spero che riduca in polvere edifici, industrie, parlamenti, automobili e centrali nucleari, invoco la sua forza distruttiva perché noi non meritiamo la sua indulgenza, la Natura è stata paziente per troppo tempo.




16 novembre 2009

Frammenti

"In Passato l'amore non esisteva. Il sesso era un qualcosa di sporco, di basso, non si conciliava con l'amore. Era piacere fisico, non dell'anima.
Se l'amore esisteva, viveva negli sguardi proibiti, nelle carezze nascoste, nelle parole sigillate sulla carta.
Se il sesso era unione di due corpi, ma anche di due anime, era totalità da tenere avvolta in calde coperte di lana, esplosione di energia da attenuare, sudori da tamponare immediatamente, gesti scambiati in tumultuosa fretta.
Quando l'amore si manifesta in questo Presente da cui difenderlo, lo si vuole racchiudere in un mondo enorme, eppure piccolo, eppure per due".

("Frammento di fine Aprile")


"Il pesce stava lì ed osservava la piccola cavità rocciosa che si apriva davanti a lui. 
Sulle sue squame graffi e tagli. Chissà quanti pesci come lui erano sopravvissuti alla Natura e poi,
per il Destino beffardo, erano finiti sulle nostre bramose tavole.
Silenzioso e rapido, il pesce entrò nella cavità, al suo posto qualche bollicina e la trasparenza dell'acqua".

("Frammento di un giorno di Dicembre")

"Il senso di colpa la opprimeva. Arrivava puntuale a renderle impossibile la digestione del più piccolo e comune errore. Capitava che ripensasse continuamente a quando aveva salutato una mamma all'uscita da scuola credendo fosse quella di un suo amico e invece si era sbagliata, convinta di aver commesso un errore imperdonabile.
Soffriva profondamente quando veniva richiamata dagli insegnanti per il suo perdersi in silenziose osservazioni sui gessetti colorati e sulle scritte che ci avrebbe fatto alla lavagna solo per usarli. E lei si puniva pensandoci, riflettendoci, immaginando tutti i modi per affrontare la situazione, per farsi perdonare, fino a cadere in un circolo infinito in cui si sentiva trafitta da lame freddissime e mestamente grigie.
Pensare ossessivamente era la forma di autolesionismo da lei prediletta. 

Era sicura che da un momento all'altro il suo corpo sarebbe sfumato come per magia, e di lei sarebbe rimasto l'aleggiare di un continuo pensare, che ad un attento ascolto si sarebbe sentito nel vento ed anche nel pallore della rara nebbia mattutina".

("Frammento di ieri, 13° giorno di Maggio")




Ed oggi volevo scrivere d'amore.


"Frammenti", Carlo Accardi, 1954

15 novembre 2009

Eroi nel vuoto



Una canzone diceva che essere “Superman non è facile”. Anche il Supereroe di tutti i supereroi aveva un punto debole, ma sapeva volare, era forte, salvava la sua donna ogni volta che lei si trovava in pericolo ed il suo intento era quello di mettere in salvo il mondo combattendo crudeli uomini pronti ad impadronirsene e a trasformarlo in polvere. Certo, secondo l’immagine che gli americani avevano di loro stessi nella prima metà del ‘900, credere in una figura del genere era possibile, d’altronde l’America era potente, ricca e patria di Libertà e Felicità.
Non era così nella vecchia e stanca Europa, le cui ferite prodotte da centinaia di anni di guerre non si erano rimarginate del tutto, ed anzi vibravano di infezioni e sangue cattivo. E la cultura del vecchio continente ne risentiva. Prime vittime i poeti. Baudelaire perde per le strade di Parigi la sua aureola e va a bere in un bordello, il caos cittadino urla fra i suoi versi ed il poeta si sente un escluso, ma anche un eletto, l’unico in grado di leggere la realtà, il tempio della natura, l’unico che può sentire le sinestesie della vita, come scriveva in “Corrispondenze”. In qualche modo il poeta baudelairiano, il poeta simbolista è ancora un eroe. O almeno lo è finché il progresso del Novecento non investe borghesi e non con i suoi clacson, con il peso dei macchinari metallici dell’industria, con le sue rotaie e a volte con i suoi tram.
Un’atmosfera di generale sovreccitazione che non eccita l’ambiente culturale, tranne D’Annunzio, che dell’artista fa una sorta di divo, di superuomo, essendo capace a soli sedici anni di pubblicizzare la sua prima opera di poesie fingendosi morto, e poi smentendo la notizia che saltava di quotidiano in quotidiano.
Ed il resto degli uomini di penna e delle loro creature di carta?
Ed ecco che l’eroe comincia a dissolversi.
Il protagonista del romanzo del primo Novecento è un eroe/antieroe, un insoddisfatto, perché incapace di agire e reagire. In “La senilità” di Svevo, Emilio si ritrova “nell’anima la brama insoddisfatta di piaceri e di amore […], nel cervello una grande paura di se stesso e della debolezza del proprio carattere, invero piuttosto sospettata che saputa per esperienza”. E’ proprio questo sospettare, questo aver paura della paura che fa di lui un inetto. E il tema dell’insicurezza, del dubbio ricorre anche in un altro romanzo di Svevo, “La coscienza di Zeno”, nel quale anche una sigaretta diventa motivo di ossessione, diventa causa della sua incapacità. Incapacità di smettere di fumare, incapacità di scegliere definitivamente fra una facoltà universitaria e l’altra, incapacità di decidere per una donna o per un’altra. Egli vive fra continue ipotesi e continui dubbi, cammina su di un filo su cui non incontra mai il nodo duro della “decisa convinzione”, è un uomo che alla domanda “continuerai a farti scegliere o finalmente sceglierai?” (presa in prestito dai versi di “Verranno a chiederti del nostro amore” di De Andrè), si crogiolerebbe nella ricerca di una risposta, invece nascosta nelle vicende della sua esistenza.
E se i protagonisti dei romanzi di Svevo vagano nel dubbio e nell’insicurezza, il Mattia Pascal, che fu anche Adriano Meis, di Pirandello, finge di essere morto per liberarsi di una famiglia troppo ingombrante, diventa ombra e scopre che chi è davvero libero è la sua vecchia famiglia, liberatasi da lui. L’illusione di essere rinato dopo la falsa morte non lo pervade del tutto, perché la realtà è più grande, più forte, più sapiente, o solo più pragmatica, ma talmente potente da rendere inutili tutte le sue azioni, compiute con l’ingenuo intento di “vivere”, e non di sopravvivere soltanto. Si ritrova ucciso, ucciso davvero dalla libertà da sempre bramata, eroina per altri, ma non per lui.
Con Pirandello e Svevo si parla ancora di eroi in carne ed ossa. In questi casi la “sostanza si vendica sulla Poesia”, e dopo essersi nutrita di essa, cosa diventa? Potrebbe diventare fumo quell’eroe “forestiere della vita” o schiavo delle sigarette. Potrebbe anche diventare cosciente di esser fatto della stessa sostanza dell’inettitudine, e non dei sogni come diceva Shakespeare.
L’uomo di fumo che Palazzeschi racconta ne “Il codice di Perelà” finalmente capisce che è un mediocre, un uomo che vaga come le ombre nei quadri di Munch, annunciatrici di incertezza ed angoscia, a cui la vita dell’adolescente rappresentata in “Pubertà” è legata impercettibilmente ed inevitabilmente.
Il dissolversi dell’eroe arriva ad un punto di non ritorno con “Il cavaliere inesistente” raccontato da Calvino. Una voce che proviene “da dentro un elmo chiuso, come fosse non una gola, ma la stessa lamiera dell’armatura a vibrare”, una voce che parla e che dice “io sono”, ma che dietro a tutti quei nomi che grida in modo metallico, nasconde l’inconsistenza di un essere inesistente.
Quasi metafora di tutto quel vuoto vestito di seta, vestito di modernità, vestito di quel progresso ed illuminato da luci sgargianti, quel vuoto che ci spaventa con lo sguardo allucinato dell’ “Idolo moderno” di Boccioni, quel vuoto che si sente dopo sferzate di nichilismo.
L’eroe che si dissolve non è solo l’immagine di un inizio Novecento spaventato e bendato, quasi paralizzato nelle sue fasciature, ma è l’immagine di un intero secolo, l’emblema dell’epoca in cui fotografi ricattatori vengono considerati idoli da orde di adolescenti e “il partito dell’uomo qualunque” è quello più forte.
Le ceneri di quegli eroi vagano nell’aria, incidono nel vuoto sfumature più profonde che gli danno un senso, ed insegnano raccontando dubbi ed incertezze che neanche Superman è in grado di vincere.

14 novembre 2009

"Lo Straniero"


Facile sentirsi stranieri. E’ come vivere continuamente percorrendo un’autostrada, terra di nessuno, o forse solo dei cartelli con le indicazioni.
Capita di sentirsi stranieri anche nella propria città, quando si è parte di una grande “massa amorfa” che non guarda da nessuna parte, perché lo sguardo lo posa sul proprio vuoto. Ed è proprio quando ci si rende conto dell’inconsistenza di quest’accumulo di individui tutti simili, perché tutti similmente persi nello stesso vuoto, che vien da pensare che si è estranei, diversi, stranieri. E’ una sensazione decisamente improvvisa, una sorta di epifania, come un lampo che attraversa un pensiero, che scuote lo sguardo e lo risveglia.
Capita che poi lo sguardo vigile, attento, vada a posarsi sulle scritte, sui disegni, sui simboli che, per sfogo o per ispirazione coraggiosamente idiota, qualcuno ha lasciato sui muri. Lì non si parla solo di amore. Ci sono grida di protesta, dichiarazioni politiche, sintesi di opinioni, dimostrazioni di odio. E allora si legge di rumeni da cacciare via e di zingari da bruciare, con accanto una svastica o una croce celtica a decorare il tutto.
Ora quello sguardo ha la possibilità di pensare. Può pensare, ma sì, bruciate tutti; Può pensare, ah, il solito teppista, e poi può non far nulla.
Oppure può cominciare a riflettere.
Potrebbe rievocare le parole di Guccini, che in “Auschwitz” afferma che l’uomo non imparerà mai a vivere senza ammazzare, che la belva umana non si è ancora accontentata di tutto il sangue già versato. “Saremo sempre a milioni / in polvere qui nel vento”. E quanti Primo Levi si domanderanno “Se questo è un uomo”? Quante parole per asciugare, tentare  di assorbire, tutto l’odio versato? E scorrono negli occhi le immagini dei notiziari, i volti dei clandestini appena sbarcati sulle coste italiane, i disperati in cerca di vane speranze su cui i tanti anonimi ed orgogliosi autori di scritte sui muri dispensatrici di odio razziale si sfogano.
Gli italiani, dicono, sono persone accoglienti e affidabili, sempre pronte a rivolgere sguardi gentili ai turisti col portafoglio pieno. Però come è facile lanciare sguardi di diffidenza verso il venditore ambulante nero, povero e probabilmente ultimo di una catena di mal affari tutti di casa nostra.
Lo sguardo sveglio in questo caso potrebbe cantare le parole di Caparezza, il quale nella sua “Vieni a ballare in Puglia” afferma che “ci siamo dimenticati di essere figli di emigrati”. Chissà quanto fanno male quegli sguardi di odio e diffidenza. Almeno quanto i carri armati o i bombardieri di cui parla Brecht. Come dice il poeta e drammaturgo tedesco, “l’uomo fa di tutto”, e come ci insegna la Storia, egli è in grado di porsi contro un suo concittadino, connazionale, contro suo fratello, se si pensa alla leggenda di Romolo e Remo.
L’uomo è in grado di torturare, violentare ed ingravidare donne solo per generare altro odio, altro sangue, come racconta Augias in un articolo di Repubblica in cui parla della guerra in Bosnia.
Un’immagine su tutte racchiude l’orrore a cui quello sguardo sveglio sicuramente non è indifferente: “Guernica” di Picasso racconta la guerra civile in Spagna. Occhi sbarrati, tonalità dal grigio al nero, volti urlanti contro il cielo ed ecco il terrore e lo squallore dell’odio, questa volta fra connazionali.
 
Su quanto odio si poserà il nostro sguardo, di quanti altri volti clandestini sentiremo parlare, quanti altri racconti come quello di Augias leggeremo, e quanti se ne stanno già scrivendo?
Se un modo per lasciarsi alle spalle l’odio e l’ignoranza che ruota attorno ad esso c’è, quello è il ricordo, la non indifferenza, lo sguardo attento che non tralascia i particolari, che non pensa che tanto è tutto inutile, che non scorre insieme alla “massa amorfa” che, come un fiume impazzito, vorrebbe travolgere tutto e tutti.

12 novembre 2009

Scrivere per viaggiare



“I libri le aprivano mondi nuovi e le facevano conoscere persone straordinarie che vivevano una vita piena di avventure. Viaggiava su antichi velieri con J. Conrad. Andava in Africa con E. Hemingway e in India con Kipling. Girava il mondo restando seduta nella sua stanza, in un villaggio inglese”.
Questo è “viaggiare” per la Matilde di Roal Dahl, il quale a sua volta, con i suoi romanzi per ragazzi, ha creato perfetti habitat per far maturare la fantasia dei suoi tanti, piccoli lettori.
Il viaggio è la meta dello scrittore. Vagare col pensiero, scoprire l’ “oltre” che tanto spaventa l’uomo mediocre, è il suo obiettivo, esser raggiunto dal fruitore della propria opera è la sua realizzazione.
Certo è che Kipling ed Hemingway si son sentiti realizzati se, come da Matilde, son stati raggiunti anche da altri lettori pronti a vagare fra le loro parole.
Ma cosa vuol dire essere pronti a partire?
Come per l’Ulisse di Dante, è rinunciare ad un figlio, ad un padre, ad una donna per “divenir del mondo esperto”? Anche. Essere pronti a partire è spogliarsi di se stessi e tentare in tutti i modi di vestire i panni del mondo.
Il lettore sa che ogni  libro è una piccola lezione di vita, il più grande specchio del suo animo. Leggere risveglia in lui, come nella Matilde di Dahl, la possibilità di inventare immagini, sapori, odori, di essere travolto da irresistibili sinestesie.
E se per il lettore il viaggio dei sensi è una tensione verso l’infinito che solo pagine e pagine di parole permettono di raggiungere, per lo scrittore, l’atto di scrivere è un qualcosa che va oltre il proprio “io”.
Come afferma Kundera ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere”, i personaggi del suo romanzo sono le sue stesse possibilità che non si sono mai realizzate. Egli vuole bene ad ognuno di loro, ma allo stesso modo lo spaventano, perché ciascuno di essi ha superato un confine che egli ha solo aggirato, oltre il quale finisce il proprio io, e che costituisce proprio ciò che lo attrae.
Scrivere è quindi per Kundera un oltrepassare i limiti del proprio io, viaggiando sui binari del proprio estro. E’ simile a ciò che succede all’uomo che si eleva dalla condizione di mediocrità andando verso l’oltre, interrogandosi quindi sul senso della vita e di ciò che lo circonda. Infatti, come ancora afferma Kundera, “un romanzo è un’esplorazione di ciò che è la vita umana nella trappola che il mondo è diventato”.
Viaggiare col pensiero e con le parole a volte è anche un voler sfuggire a questa gabbia. Se il lettore, mentre si immerge in uno scritto, si inebria di tutte le sensazioni che quello può regalargli, lo scrittore, durante il processo creativo, può evadere. Lo faceva Verlaine quando, chiuso in prigione, guardava il cielo blu segnato dalle sbarre della sua obbligatoria dimora e parlava dei rumori dei luoghi in cui era la vita nella poesia “Le ciel est, par-dessus le toit”
.
Nelle opere di Baudelaire il viaggio è visto come evasione nel mondo dei sensi e in quello incontaminato e puro dell’immaginazione. Nauseato dallo choc di cui fa esperienza nella Parigi degli albori della modernità, vuole evadere nella terra della donna da lui adorata, là dove “tutto è ordine e beltà, lusso, calma e voluttà”. “Invito al viaggio” è un invito ad entrare in un mondo abitato dai sensi, dalla lucentezza dei piccoli particolari, in un mondo di “giacinto e d’oro”.
Capita che l’evasione si nasconda nei piccoli particolari. Pirandello è in grado di aprire i propri occhi, quelli dei suoi personaggi e, simultaneamente, quelli del lettore, sulle sottigliezze della vita.
Al Belluca di “Il treno ha fischiato” basta correr col pensiero dietro ad un treno sentito fischiare in una notte come le altre, per vagare fra oceani e foreste, montagne e città note o ignote, riuscendo ad evadere dal caos della quotidianità, quella stessa che tanto ossessiona l’autore siciliano, mania che lo porta ad estrapolare dal suo genio pensieri illuminanti, pronti a rimbalzare addosso a chiunque si senta pronto a viaggiare con essi.
Scrivere per viaggiare, leggere per sfuggire. Vagare. Tutto questo è viaggiare.
Si viaggia per se stessi, verso se stessi, si sfugge da se stessi e dagli altri, da ogni “oltre” e da ogni ramo secco del nostro passato che non si è trasformato in futuro. Si vaga col pensiero per raccontare e per rimanere, per restare gli uni accanto agli altri, per fare “un sogno di mare” e “seguire questo migrare”, citando Fabrizio De Andrè, per tenere saldo ogni drappo di mondo che si è visto realmente o solo dal proprio personale “villaggio inglese”.

Berlino



Ho visto Berlino per la prima volta tra le pagine della vita di Christiane F.. Era una Berlino lucida di pioggia, livida di rabbia, raggomitolata nel suo stesso veleno, era una Berlino aggrappata al dolore di una ferita interna che sapeva di prigione.
E quante volte, grazie a quelle parole grigie, ci sono tornata. L’ho letta bene, osservata in fondo ed ho visto, in quello squarcio di storia di metà anni ’70, il presente del mio Paese, il senso di totale perdizione e smarrimento che guardo stampato sulle facce nella metro, nelle strade di Roma, sui manifesti abusivi spiaccicati sui muri di un qualsiasi angolo della città. In un certo senso l’asse Roma - Berlino esiste ancora, ma in altri termini, epoche diverse.
Ho conosciuto i suoni di Berlino nella tensione degli Heroes di Bowie e nel bacio disperato accanto al Muro fra i fucili che sparano sopra teste inermi, l’ho ascoltata nella Alexander Platz di Franco Battiato e nelle passeggiate fino alla Frontiera fra l’Est e l’Ovest, passeggiate in cui parlare di se stessi.
Ho visto Berlino nell’Espressionismo. Era la capitale dell’arte della prima metà del Novecento, una capitale come non ce ne furono più, perché poi ci fu la guerra, perché poi ci fu il dopoguerra, il boom economico, il Vietnam ed il tempo dell’arte era ormai finito da tempo.
Berlino poi l’ho vista davvero. Ci ho messo piede a metà Marzo di quest’anno, e metà del mio cuore è rimasto lì, accanto all’impronta di quel piede.
Era proprio come volevo che fosse. Fredda, grigia, triste, ferita, bellissima. Aveva il sapore di un Inverno che non ho mai sentito sulla pelle, le strade immense sapevano di ricostruzione, di distruzione e di speranza insieme. Berlino è una città determinata.
Anche se quella ferita interna è stata rimarginata, la differenza fra l’Est e L’Ovest è ancora palpabile.
Albergavo nella Ex Berlino Est e l’hotel ricordava il realismo sovietico. Le camere erano anguste, la visuale era immensa, la Torre della Televisione ad Alexander Platz sembrava potesse dominare il mondo.
Da una parte l’impronta sovietica, dall’altra quella del capitalismo di americane origini hanno reso Berlino una sorta di città – Arlecchino. Le costruzioni distrutte a metà, quelle ristrutturate, quelle che non ci sono più e al loro posto c’è un immenso palazzo di chissà quanti piani, le strade, i mezzi pubblici. URSS e USA si son fuse, e son diventate un perfetto esempio di coesione, un profondo ossimoro, necessario perché si vada avanti.
L’ombra del Muro me la sentivo sempre addosso, sentivo sempre addosso anche il senso di incredibile fortuna nell’aver potuto mettere piede in una città finalmente unita, finalmente libera.
Quando poi, la sera del 9 Novembre 2009, ho visto le immagini della festa a Berlino per il ventennale della caduta del Muro e gli occhi mi brillavano, ho desiderato con tutta me stessa di tornare là. Certo, la voce di Vespa in sottofondo disturbava non poco, ma l’emozione è stata più potente del disprezzo.
Allora ho deciso di tornarci, in questo modo.



Cristo



A Ilaria cade sempre tutto, Cristo! Ecco, tutto vola giù tranne lui!
E quante volte lo ha invocato nelle sue preghiere di bambina!
Cadevano le foglie, cadeva la pioggia, cadevano addirittura le nonne e le case, ma lui no, mai.
Restava in bilico su quella croce, con le braccia aperte in un abbraccio, ma non veniva mai verso di lei,
restava lì, di marmo.
Ed ancora continua a caderle tutto, anche le stelle cadono, ma lui no, mai.

11 novembre 2009

Quello che il mattino è


Ci sono quelle mattine che iniziano bene ed altre che sono un disastro. Poi ci son quelle che non sanno farsi giudicare, perché sono un po' come la vita, alti e bassi.
Questa notte mi sono addormentata ripensando al pomeriggio appena trascorso. Non è stato facile bloccare il flusso di pensieri neri, quelli che appena sei felice punzecchiano la tua testa per far sì che essa diventi pesante, pesante proprio come quando mi lamento e mi piango addosso, pesante come me quando non riesco a vedere il polo positivo di ciò che accade, pesante come me quando non voglio uscire perchè se no mi preoccupo. Di cosa? Del mondo, di me, di nuovo del mondo e ancora di me.
Alla fine però mi sono addormentata ridendo del geniale Bukowski, che, non lo sapeva, ma aveva fra le mani il senso della vita, di una vita un po' cruda, un po' ironica, un po' fredda e un po' persa. I suoi personaggi almeno non stanno fermi, cercano comunque qualcosa. Loro, anche se in fondo, la luce ce l'hanno.
Mi sono addormentata pensando al nostro pomeriggio, pensando che è vero, quano ami qualcuno è meraviglioso vederlo dormire, lo vedi in tutte le sue dimensioni. Ciò che era, ciò che non è, ciò che è per te, ciò che sarà e ciò che forse sarà. Allora ho visto il suo cuore palpitare nei movimenti delle palpebre, negli scatti involontari, nei baci che mi ha dato da mezzo addormentato, nel calore delle sue mani e delle sue braccia che mi hanno stretta, nella sua presenza, nella forma di sè che ha lasciato sulle mie coperte, nella forma di sè che ha lasciato nei miei occhi.
La notte è quindi arrivata sotto forma di sogno, avevo delle sopracciglia perfette, forse scoprivo qualcosa di importante, poi non ricordo. 
Ci sono quelle mattine che iniziano e non sai né come né quando hanno avuto inizio, allora prendi la decisione di entrare a lezione un'ora più tardi e più tardi decidi di non andare proprio all'università. La scusa è che vuoi dormire e sentirti protetta dal caldo delle coperte, riposare la mente perchè ne ha sempre più bisogno.
Da qui iniziano i sogni che fanno sì che la mattinata dalle 11 e 30 in poi abbia un po' di pieghe, un po' di impronte sporche. Lo show onirico si apre con un individuo nascosto nella penombra della mia stanza che, con una spillatrice in mano, minaccia di squartarmi, io che mi spavento e rimpiango di non essere andata all'università. Nel sogno però mi riaddormento di nuovo e puff, sparisce anche lo strano individuo.
Ma è quando ti alzi dal letto che capisci che è mattina, anche se non sai se diluvia o se c'è il sole.
Ho pensato alla mattina quando ho deciso di prepararmi il cappuccino, invogliata da bustine di zucchero aromatizzate. Avevo scelto l'aroma di cacao e l'aroma di nocciola. Ero felice mentre preparavo il cappuccino, un po' meno quando ho assaggiato la bevanda zuccherata. Un sapore disgustoso, ho dovuto versare il tutto nel lavello e mi sono arrabbiata con me stessa per il latte e per il caffè sprecati. Maledetta curiosità, maledette bustine di zucchero aromatizzato, maledetti articoli di giornale che leggi di prima mattina e hanno come protagonista Belpietro che vorrebbe condurre un programma su Rai Due per contrastare Santoro, maledetti articoli in cui ti imbatti e in cui leggi di Berlusconi che a causa dei suoi impegni di presidente del consiglio non può farsi PROCESSARE. La soluzione è talmente semplice! DIMETTERSI e lasciare il posto a chi si occupa di noi e non dei propri affaracci.
Una mattinata però può anche migliorare. Biscotti tritati e cucchiaiate di Nutella, il mio gatto che vuole salire sul pc, musica bella, il mio uomo che tra poco verrà a trovarmi, i miei calzini con la mucca, io ancora in pigiama, le poesie per la casa editrice, chiamare giornalisti, quello che voglio fare nella mia vita.