28 dicembre 2016

Con la matita in pugno


Con questo breve racconto sono arrivata finalista al concorso letterario "70 righe - Nasce la Repubblica", concorso bandito dal Dipartimento Attività Culturali e Turismo di Roma Capitale in collaborazione con le Associazioni residenti della Casa della Memoria e della Storia, in occasione del 70° anniversario della Repubblica Italiana e della prima volta delle donne al voto al Referendum del 2 giugno 1946.
L'aspetto che ho voluto sottolineare è stato proprio quello della partecipazione femminile alla vita politica attraverso il suffragio, che per la prima volta in Italia, su scala nazionale, diviene universale.
Mi sono appassionata a questa fase della nostra storia, ho fatto ricerche e ho scoperto che ci sono state tante associazioni che hanno combattuto per farci acquisire questo diritto, ho trovato le storie di donne eccezionali, ed è a loro che ho voluto dedicare queste poche righe.

Vi lascio al racconto, buona lettura!

Con la matita in pugno

“E un giorno credi questa guerra finirà
Ritornerà la pace ed il burro
abbonderà
E andremo a pranzo la domenica
fuori Porta a Cinecittà
Oggi pietà l’è morta
Ma un bel giorno rinascerà
E poi qualcuno farà qualcosa
Magari si sposerà”
Francesco De Gregori, San Lorenzo

Le ultime notti di maggio lo avevano preannunciato col loro odore intenso di fiori: giugno sarebbe stato un mese di giornate profumate e soleggiate, la temperatura sarebbe stata tiepida e il vento leggero avrebbe portato l’aria di mare anche in città.
Era così anche quella tarda mattinata del due giugno e Annarella si dirigeva con passo svelto verso il seggio di San Lorenzo, ma al suo sguardo non sfuggiva l’edera che scendeva sulle rovine di una palazzina bombardata, e pensava allora che la bellezza cresceva lo stesso, cresceva ovunque e riparava tutto a modo suo.
Annarella quella mattina si era svegliata tardi, dopo una notte insonne passata a rigirarsi nel letto: non poteva chiudere occhio dall’ansia e dall’eccitazione che provava per quello che avrebbe fatto il giorno successivo. Ripassava nella mente le istruzioni che aveva ricevuto dalla donna del comitato, quella che una mattina si era presentata su di un carretto con un megafono, sotto casa sua, e che in quel grosso imbuto parlava alle donne come lei, dicendo che anche le donne dovevano votare, ora che potevano, e che dovevano scegliere la Repubblica, ché solo questa poteva fare andare avanti il paese, ché il re lo aveva lasciato in mano al duce, “e vedete da voi com’è finita!”. Nadia, così si chiamava, era poi passata casa per casa a guardare in faccia quelle ragazze e adulte e anziane, alcune sole coi figli, mentre i mariti e i fratelli erano ancora in cammino di ritorno dal fronte oppure morti, altre con gli anziani padri seduti accanto a loro a fissarla mentre parlava del diritto di voto delle donne e del loro essere pienamente cittadine. Alcune partecipavano con vivo entusiasmo, altre, intimorite dagli sguardi degli uomini di casa oppure spaventate dalle parole che non capivano, rispondevano che a loro quella roba là non interessava. Allora Nadia, con una luce nuova negli occhi, diceva che a loro poteva pure non interessare, ma la politica si interessava a loro, e la fame e le bombe erano il modo in cui lo faceva. Dopo queste parole, qualcuna abbassava lo sguardo e restava in silenzio a pensare, qualcun’altra la cacciava sbrigativamente, “ché c’ho da fa’, signo’, faccia la cortesia”.
Quando era arrivata da Annarella, Nadia aveva trovato ad accoglierla una ragazza vestita quasi solo di stracci, col volto magro un tempo tondo, e gli occhi tristi. Accanto a lei il fratello, a cui mancava un braccio, perduto in quel mattino di luglio, quando le bombe cadevano come neve.
Annarella percorreva il suo quartiere, e i ricordi dei mesi della guerra, in quel giorno che inaspettatamente aveva acquisito un significato fondamentale per lei, le attraversavano la mente, e allora scorrevano veloci le immagini e le sensazioni di quei tempi, pensava alla fame, alla miseria, rivedeva le bombe e le macerie, sentiva la paura delle SS e l’angoscia per le persone arrestate e mai tornate a casa, il dolore per la chiesa distrutta e i corpi a terra. Una lacrima le stava per scendere dall’angolo dell’occhio, ma la ricacciò indietro in fretta, non voleva guastarsi il trucco che Rosetta le aveva fatto e macchiarsi il vestito a fiori che le aveva prestato.
Rosetta quel giorno non sarebbe andata a votare, perché il marito, tornato dalla guerra da qualche mese, non aveva voluto sentire ragioni. La guerra lo aveva trasformato. Prima era un uomo dolce e premuroso, adesso era taciturno e ogni tanto piangeva, e se qualcuno se ne accorgeva cominciava ad urlargli addosso. Rosetta avrebbe voluto votare, ma non voleva litigare con lui, così non aveva insistito e aveva fatto in modo che almeno Annarella si presentasse davanti a quelli della sezione come una vera signorina, vestita a festa, ché per loro, le ragazze, era quasi una festa.
I volti delle persone che tornavano dal seggio sembravano tutti sorridenti, e tutti parlavano animatamente e con entusiasmo. C’erano anche quelli che discutevano e si accaloravano tanto da arrivare pure a spintonarsi, ma prontamente arrivava chi li divideva, e poi c’erano le anziane signore vestite a lutto, quasi tutte sorrette da un giovanotto che le aiutava a sopportare la fatica del camminare sotto il sole caldo di mezzogiorno. Annarella guardava tutta quella umanità e un sorriso spontaneo le si disegnava sul viso e, presa da un’eccitazione crescente, camminava tanto veloce che quasi correva.
Più si avvicinava al seggio, mancavano ancora pochi metri, più pensava alle parole di Nadia quel giorno che era venuta a casa sua. “Annarella”, le diceva “ricordati che tu sei una donna, che adesso puoi decidere di te stessa!”. Queste parole avevano fatto arrabbiare Nando, il fratello minore di Annarella, che in quanto unico uomo di casa aveva la responsabilità di badare alla sorella, da quando i genitori erano morti. Nando aveva assunto un’espressione dura e aveva risposto che Annarella non poteva decidere proprio niente, tantomeno se si trattava di votare e di votare addirittura la Repubblica! La ragazza gli si era avvicinata, gli aveva accarezzato l’unico braccio, e con dolcezza gli aveva detto che si trattava solo di ascoltare ciò che quella donna aveva da dire, niente di più. Lui, che adorava la sorella, non aveva potuto resistere a quel gesto dolce e materno, e aveva acconsentito affinché Nadia parlasse. La donna, con rinnovato ardore, aveva ripreso il suo discorso: “Quello che voglio dire è che finalmente in Italia le cose stanno cambiando, noi donne il voto ce lo siamo sudato e conquistato, adesso si tratta di far sentire anche la nostra di voce. Io all’anima non credo, ma alla forza e all’intelligenza di noi donne sì!”. Annarella le aveva chiesto allora cosa cambiava se la Repubblica avesse vinto. “Cosa cambia, mi chiedi?”, aveva ironicamente domandato Nadia, e Annarella ricordava la sua espressione ferma nel risponderle, “cambia che finalmente tutti godremo di pari diritti e doveri e non ci sarà nessun sovrano, Annare’, il popolo sarà sovrano!”. E poi le aveva dato una copia della scheda sulla quale avrebbe votato il due giugno, e le aveva fatto vedere come avrebbe dovuto fare. Nando stava lì con lo sguardo torvo, ma non diceva niente. La sorella ogni tanto lo guardava e gli rivolgeva un sorriso rassicurante. Ma in seguito aveva discusso talmente tante volte col fratello che alla fine lo aveva preso per sfinimento e lo aveva convinto con una piccola bugia, necessaria affinché lui le accordasse il permesso di uscire e andare a votare.
Annarella aveva raggiunto il seggio, la fila era lunga e l’aria vibrava di un vociare sommesso, quasi che tutti si stessero scambiando segreti. Si mise ad attendere pazientemente. Quando finalmente entrò nella cabina, nervosa ma felice, si rese conto che la sua X su quel foglio avrebbe avuto lo stesso valore di quella dell’uomo più importante d’Italia. Sorrise e impugnò la matita.
Ilaria Pantusa





30 novembre 2016

"Rosita" di Rino Gaetano. Oltre l'effimero della quotidianità.



Il tempo dell’effimero è attraente, affascinante, offre godimento, ma dura poco e non lascia molto. Il mondo, la vita, le giornate, tutto è talmente strabordante di effimero, che si fa fatica a riconoscerlo e a distinguere.
Sì, le lusinghe del possesso – di qualcosa, di qualcuno, una posizione di prestigio, una compagna o un compagno di vita –, la seduzione dei soldi – “averne tanti da far crepare d’invidia” –, la rassicurante routine del quotidiano – “le vetrine, i caffè” –, ma poi anche il protagonista di “Rosita”, questa canzone di Rino Gaetano, deve “fermarsi a pensare” e tornare sé stesso.

Tornare sé stesso. Spesso questo passaggio mi ha fatto pensare.
In questa canzone è descritto un mondo, quello della vita di tutti i giorni di un individuo qualsiasi che ognuno di noi potrebbe incarnare. Un mondo che si regge su illusioni, su quello che Elsa Morante definirebbe “irrealtà”, un mondo che nega la reale felicità, che anche quando è piena di sofferenza è più gioiosa della felicità degli “Infelici Molti” (cito a memoria dalla “Canzone degli F.P. e degli I.M.”). È, quello dei “Felici Pochi” invece, un mondo che non protegge da nulla e che niente assicura, ma è un mondo nel quale è possibile riuscire ad avvicinarsi alla comprensione di significati profondi e a quella felicità vera e piena di gioia.

È quello a cui si avvicina il personaggio cantato da Rino Gaetano quando incontra Rosita:

Ieri ho incontrato Rosita
perciò questa vita valore non ha

Non hanno valore quindi i quattrini, i vestiti di raso, non ha valore neanche “Daniela” che lo aspetta all’ascensore. Tutto crolla, anche le futili distinzioni tra sesso e amore, quando ad esempio dice “con un’altra farei chissà che/ con Daniela l’amore”.
Sono tutti pensieri di una vita che si riflette vuota di vitalità nello specchio della coscienza di chi ha incontrato “Rosita, di bianco vestita”.
Rino Gaetano descrive con tanti dettagli la “vita-non vita” (come la chiamo io), ma non dice come è la “vita-vita” (il post-Rosita), forse perché, essendo il radicale opposto della prima, è indescrivibile e addirittura inconoscibile razionalmente, ossia è qualcosa di comprensibile solo attraverso l’esperienza sensibile.

È però qualcosa che ha un effetto a primo impatto devastante: crollano certezze, ma a crollare a ben vedere sono le illusioni, quelle di una vita-non vita.
Ognuno di noi potrebbe ritrovarsi nei versi di questa canzone scritta 40 anni fa, ognuno di noi potrebbe ritrovare in qualcosa o qualcuno la propria “Rosita”, che, come disse Rino Gaetano in un’intervista, altro non è che un ideale.


19 ottobre 2016

"Un chimico", Fabrizio De André e la domanda delle due di notte

Un Chimico, da Non al denaro non all'amore né al cielo (1971)
Tante volte ho ascoltato questo brano, che insieme a Un malato di cuore e a Il suonatore Jones costituisce per me l'apice di Non al denaro non all'amore né al cielo (1971), ma mai mi ero soffermata su una questione che invece mi è balenata in mente questa notte, alle 2, senza che in quel momento stessi ascoltando la canzone, semplicemente mi ha raggiunto sul momento di andare a letto:
ma chi è che, nel testo, fa la riflessione sulla primavera?

Primavera non bussa, lei entra sicura
come il fumo lei penetra in ogni fessura
ha le labbra di carne, i capelli di grano
che paura, che voglia che ti prenda per mano
che paura, che voglia che ti porti lontano.

Ho letto la poesia di E. L. Masters (Trainor, il farmacista) contenuta nell'Antologia di Spoon River, da cui De André ha liberamente attinto, e in questa manca del tutto la riflessione, così come manca, secondo me, il lirismo che invece nella canzone è presente e di cui essa è intrisa.

Ho pensato a questa Primavera, che altri non è che la potenza del sentimento amoroso, che è talmente intensa da riuscire a "penetrare" anche tra le parole di un personaggio che ha scelto di escludere dalla propria vita questa esperienza, tanto da andarsene "senza soffrire, /senza un volto di donna da dover ricordare". L'amore però entra nel testo quasi come se vi fosse introdotto da una voce esterna, estranea a quella dell'io del chimico, e la sensazione è rafforzata dal vocalizzo femminile che accompagna il cantato di De André, vocalizzo che oltretutto dona ariosità alla melodia, che qui si fa più dolce e sinuosa.

Potrebbe anche essere una riflessione che emerge da un qualche trascorso rimosso dal chimico, ma che con la morte può tornare tra i suoi pensieri, dato che ormai i giochi sono fatti e il "pericolo" è scampato.

Ho anche voluto vederci la voce di De André stesso, che si contrappone, in qualità di narratore esterno, a quella del chimico, come a volergli far notare l'inesorabilità di un sentimento come l'amore, inesorabile come la morte. Eros e Thanatos, amore e morte: i Dead Can Dance in Black sun cantavano "there is sex and death in mother nature's plans" e io ho sempre pensato che questa affermazione fosse assolutamente vera (ma non mi dilungo sul perché, oltretutto credo sia intuibile, ma se vi va di discuterne, ditemelo pure), e in qualche modo mi sembra che il concetto sia ribadito anche in Un chimico, perché nessuno, quando la "Primavera" arriva, le può sfuggire, al massimo, come accade al chimico, non riesce a capirla.

Tutto ciò mi ha anche fatto pensare ad un libro di Italo Calvino che io amo profondamente, Il barone rampante (1957), e mi va di chiudere con una riflessione del narratore, che è anch'essa una domanda:

Ma in tutta quella smania c'era un'insoddisfazione più profonda, una mancanza, in quel cercare gente che l'ascoltasse c'era una ricerca diversa. Cosimo non conosceva ancora l'amore, e ogni esperienza senza quello che è? che vale aver rischiato la vita, quando ancora della vita non conosci il sapore?



Questo è Romeo, il mio gatto ciccione, e ogni volta che inizio a scrivere deve stendersi sul mio taccuino e impedirmi di proseguire, per poter avere tutte le mie attenzioni. 


Ilaria Pantusa